20 Ago La qualità del vino – luglio agosto 2007
Dalla rivista “Il Chianti e le terre del vino” – di G. Soldera
Sono lieto di complimentarmi con il Sig. Buffi nuovo sindaco di Montalcino e con il Sig. Francesco Marone Cinzano, nuovo presidente del consorzio del Brunello di Montalcino, ad entrambi i miei migliori auguri di buon lavoro, per la valorizzazione di Montalcino, del suo territorio, dei suoi vini e in particolare il Brunello di Montalcino 100% Sangiovese; vorrei inoltre unirmi alle dichiarazioni del Ministro De Castro che in un comunicato stampa MIPAAF del 13 luglio u.s., in occasione del sequestro di 24.000 hl di vino contraffatto (3.200.000 bottiglie di Prosecco e Pinot Grigio), ha testualmente detto “tale brillante operazione testimonia l’importanza fondamentale dei controlli nella tutela del mercato e dei consumatori in un settore strategico per il sistema agroalimentare italiano”. Nel capitolo VIII pubblicato nel numero 49, ho anticipato che avrei parlato della fermentazione indotta che ricorre in genere all’impiego di ceppi di lieviti (usualmente un ceppo per processo fermentativo) reperibili sotto forma di preparati pronti per l’uso o previa “riattivazione”; selezionati e prodotti da società multinazionali operanti in tutti i Paesi produttori di vino. Il ricorso a questi lieviti starter ha indubbiamente costituito una grande innovazione biotecnologia ma, a mio avviso, ha anche introdotto un “effetto appiattimento” delle differenze, una sorta di “azione obliterante” nei confronti della unicità del prodotto, e cercherò di spiegarne le ragioni.
Un lievito selezionato è tale se risponde meglio di altri a criteri di selezione prestabiliti in funzione del tipo di azione e di prodotto che si vuole ottenere. L’elenco dei criteri di selezione è tendenzialmente in continua crescita ed include non solo l’assenza di caratteri indesiderati ma anche, e oggi direi soprattutto, la presenza e l’espressione di caratteri desiderati. L’uso di colture di lievito starter, per definizione, deve garantire l’esito della trasformazione, rendendo prevedibili sia l’andamento del processo fermentativo sia la qualità del prodotto finale. Se l’impiego è condotto correttamente, il ceppo starter prende il sopravvento sulla microflora autoctona, che può rimanere vitale (almeno per un certo periodo di tempo) ma che ha scarse possibilità di svilupparsi massicciamente e di competere con il ceppo inoculato che è, quindi, destinato a portare a termine da solo il processo fermentativo impartendo al vino la sua “impronta aromatica”. Le moderne tecniche di biologia molecolare hanno consentito di confermare, nei casi di operazioni di inoculo dello starter ben condotte, la assoluta dominanza del ceppo inoculato in tutte le fasi del processo fermentativo: un ceppo, ed uno solo! Come per la birra!! Bisogna molto riflettere su questo fatto. I ceppi reperibili sul mercato apparentemente non sono poche ed ogni anno aumentano in numero: ogni ceppo viene presentato dalle società produttrici come assolutamente capace di operare secondo quanto descritto nelle “informazioni tecniche” (fornite insieme al preparato commerciale); esiste (o è dichiarato tale) almeno un ceppo per ogni possibile esigenza per la piena soddisfazione del produttore di vino che ne fa uso dimenticando, con ciò, che ha (forse inconsapevolmente) rinunciato all’espressione della grande biodiversità di lieviti presenti nel suo mosto e forse anche alla possibilità di arrivare ad un prodotto “grande”, ma questo è il prezzo che si deve pagare in cambio della tranquillità (di chi?) durante la vinificazione e della garanzia degli esiti. E’ sicuramente la paura di sbagliare che spinge il responsabile della vinificazione ad usare lieviti selezionati. Comunque, è un dato di fatto che l’uso di colture starter sia molto diffuso sia tra grandi che tra piccoli (in senso volumetrico) produttori. A tale riguardo, se posso comprendere l’obiettivo di produrre vini in tempi di produzione prevedibili e con caratteristiche qualitative accettabili e quanto più costanti possibile da parte della grande industria, non è a mio avviso comprensibile per piccoli e medi produttori che potrebbero e dovrebbero aspirare a vini con carattere e personalità più spiccati, meno allineati a quella globalizzazione del gusto che è, da sempre, la finalità della grande industria. Due sole osservazioni finali: (a) il numero di ceppi disponibili sul mercato è assolutamente esigue se paragonato al numero ed alla tipologia dei vini prodotti, da cui consegue che (b) in moltissimi casi il ceppo utilizzato come starter non ha niente a che vedere con il territorio, l’uva e la cantina in cui il vino viene prodotto (per semplice informazione, i ceppi D254 ed EC118, due ceppi maggiormente utilizzati in Toscana per le vinificazioni in rosso, sono stati rispettivamente isolati dalla regione di Montpellier e dalla regione dello Champagne) con buona pace della tipicità.
Ho avuto notizia che l’associazione mondiale delle imprese turistiche ha declassato l’Italia all’82° posto per il contributo del turismo all’economia nazionale; ed al 173° posto su 176 Paesi per le prospettive di crescita nel settore. L’Istituto Nazionale Ricerche Turistiche fornisce inoltre questo dato: solo il 41% delle strutture ricettive in Italia offre la possibilità di collegarsi ad Internet e di queste solo la metà offre la connessione dalla camera, perciò solo 1 camera su 5 è connessa ad Internet. La riflessione che dobbiamo fare è: “Cosa facciamo a tutti i livelli per valorizzare il turismo che è, a mio avviso, l’unica materia prima italiana?”
Su questo tema vorrei ricevere proposte, idee, suggerimenti, notizie di iniziative. Grazie.