20 Ago La qualità del vino – luglio agosto 2011
Dalla rivista “Il Chianti e le terre del vino” – di G. Soldera
A Case Basse, nei mesi di aprile e maggio, è continuata l’assenza delle piogge primaverili, primavera che è iniziata dopo il 10 di febbraio; ciò ha permesso, in parte, di far evaporare l’acqua superficiale, anche attraverso la festuca, che avevo seminato l’anno scorso; anche quest’anno non ho letamato le vigne e proseguo nel non concimarle per costringere le viti a nutrirsi in profondità, dove trovano i minerali, che danno all’uva complessità, longevità e profumi.
Il bel tempo ci ha dato la possibilità di eseguire bene i lavori di zappatura, scelta dei tralci, spollonatura manuale (questa operazione, fatta dall’uomo esperto, possibilmente senza uso delle forbici, è essenziale per la durata della vita della vite), eliminazione delle femminelle e dei grappoli superflui. In questi giorni siamo in vigna a pulire per la terza volta, le foglie sono bellissime, i grappolini di uva procedono molto bene; fra poco, quando il sole avrà rinforzato i tralci, provvederemo a legarli lungo il filo superiore (non cimo mai poiché considero questa operazione molto dannosa per la qualità dell’uva).
Il tempo ci ha anche grandemente aiutato per la sanità delle vigne, ma le piogge di fine maggio- primi giugno sono molto pericolose per la sanità; il mese di giugno è il più difficile per la vigna e non solo per le malattie, ma anche per l’accumulo di sostanze delle foglie, perciò giugno diventa, a mio avviso, il mese che condiziona la qualità dell’uva da vinificare.
Colgo l’occasione per riparlare della fermentazione indotta, tema che ritengo di particolare importanza ed attualità, anche per le implicazioni economiche che il vino eguale e standardizzato ha sul mercato. E’ evidente che questi tipi di vino avranno sempre più, nel futuro, un abbassamento di prezzo e saranno commercializzati dalla grande distribuzione che renderà superflui gli agenti e fagociterà le aziende di medie produzioni.
La fermentazione indotta ricorre in genere all’impiego di ceppi di lieviti (usualmente un ceppo per processo fermentativo), reperibili sotto forma di preparati pronti per l’uso o previa “riattivazione”, selezionati e prodotti da società multinazionali, operanti in tutti i Paesi produttori di vino. Il ricorso a questi lieviti starter ha indubbiamente costituito una grande innovazione biotecnologia, ma, a mio avviso, ha anche introdotto un “effetto appiattimento” delle differenze, una sorta di “azione obliterante” nei confronti della unicità del prodotto e cercherò di spiegarne le ragioni.
Un lievito selezionato è tale se risponde meglio di altri a criteri di selezione prestabiliti, in funzione del tipo di azione e di prodotto che si vuole ottenere. L’elenco dei criteri di selezione è tendenzialmente in continua crescita e include non solo l’assenza di caratteri indesiderati, ma anche – e oggi direi soprattutto – la presenza e l’espressione di caratteri desiderati. L’uso di colture di lievito starter, per definizione, deve garantire l’esito della trasformazione, rendendo prevedibili sia l’andamento del processo fermentativo sia la qualità del prodotto finale. Se l’impiego è condotto correttamente, il ceppo starter prende il sopravvento sulla microflora autoctona, che può rimanere vitale (almeno per un certo periodo di tempo) ma che ha scarse possibilità di svilupparsi massicciamente e competere con il ceppo inoculato, che è, quindi, destinato a portare a termine da solo il processo fermentativo, impartendo al vino la sua “impronta aromatica”. Le moderne tecniche di biologia molecolare hanno consentito di confermare, nei casi di operazioni di inoculo dello starter ben condotte, l’assoluta dominanza del ceppo inoculato in tutte le fasi del processo fermentativo: un ceppo, e uno solo! Come per la birra!! Bisogna molto riflettere su questo fatto. I ceppi reperibili sul mercato apparentemente non sono pochi e ogni anno aumentano di numero: ogni ceppo viene presentato dalle società produttrici come assolutamente capace di operare secondo quanto descritto nelle “informazioni tecniche” (fornite insieme al preparato commerciale); esiste (o è dichiarato tale) almeno un ceppo per ogni possibile esigenza per la piena soddisfazione del produttore di vino che ne fa uso,, dimenticando, con ciò, che ha (forse inconsapevolmente) rinunciato all’espressione della grande biodiversità di lieviti presenti nel suo mosto e forse anche alla possibilità di arrivare ad un prodotto “grande”, ma questo è il prezzo che si deve pagare in cambio della tranquillità (di chi?) durante la vinificazione e della garanzia degli esiti. E’ sicuramente la paura di sbagliare che spinge il responsabile della vinificazione ad usare lieviti selezionati. Comunque, è un dato di fatto che l’uso di colture starter sia molto diffuso sia tra grandi che tra piccoli (in senso volumetrico) produttori. A tale riguardo, se posso comprendere l’obiettivo di produrre vini in tempi di produzione prevedibili e con caratteristiche qualitative accettabili e quanto più costanti possibile da parte della grande industria, non è a mio avviso comprensibile per piccoli e medi produttori, che potrebbero e dovrebbero aspirare a vini con carattere e personalità più spiccati, meno allineati a quella globalizzazione del gusto che è, da sempre, la finalità della grande industria. Due sole osservazioni finali: (a) il numero di ceppi disponibili sul mercato è assolutamente esigue, se paragonato al numero ed alla tipologia dei vini prodotti, da cui consegue che (b) in moltissimi casi il ceppo utilizzato comestarter non ha niente a che vedere con il territorio, l’uva e la cantina in cui il vino viene prodotto (per semplice informazione, i ceppi D254 ed EC118, due ceppi maggiormente utilizzati in Toscana per le vinificazioni in rosso, sono stati rispettivamente isolati dalla regione di Montpellier e dalla regione dello Champagne) con buona pace della tipicità.
E passiamo a un tema di attualità politica: il settimanale britannico “The Economist” ha pubblicato, ai primi di giugno, un rapporto speciale sull’Italia, rilevando che negli ultimi 10 anni il reddito pro-capite degli italiani è diminuito ai livelli del 2000: in quel periodo solo 2 nazioni, Haiti e Zimbawe, hanno fatto peggio. Il titolo dell’inchiesta è “The man who screwed an entire country” con la fotografia del presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Questo conferma anche quanto ha scritto Klaus Davi nel suo libro “Porca Italia” – Garzanti editore – sull’immagine dell’Italia all’estero. Non posso non sottolineare che i prodotti italiani devono essere venduti all’estero, se vogliamo rimanere una potenza economica, e l’immagine dell’Italia è essenziale per il commercio con l’estero e per fare arrivare i turisti stranieri; mi sembra che si possa dire che quello che facciamo vada in tutta altra direzione.
Cosa ne pensate?