20 Feb La qualità del vino – gennaio febbraio 2007
Dalla rivista “Il Chianti e le terre del vino” – di G. Soldera
La qualità comporta innovazione e perciò continua ricerca, ma ciò ha un costo che deve essere ripetuto sul prezzo di vendita. La situazione attuale dei prezzi è la seguente:
1) Le quotazioni dell’uva 2006 sono scese ai livelli di prezzo degli anni Ottanta;
2a) abbiamo aumentato l’export da 6.965.000 hl nel semestre gennaio-giugno 2005 a 7.839.000 hl nel pari semestre terminante a giugno 2006, su una produzione annua di circa 50.000.000 hl;
2b) nello stesso periodo di riferimento, abbiamo diminuito il prezzo medio per export in UE da 1,42 €/l nel semestre terminante a giugno 2005 a 1,31 €/L nel pari periodo 2006;
2c) abbiamo diminuito il prezzo medio per export extra UE da 3,23 €/l nel semestre terminante a giugno 2005 a 3,118 €/L nel pari periodo 2006.
Secondo dati OIV nel 2006 ci sono da 40 a 45 milioni di hl di vino non venduto nel mondo, quasi quanto tutta la produzione italiana di un anno e si prevede che nel 2007 questa cifra di invenduto aumenterà.
Questi dati sono impressionanti e ci devono obbligare ad una vera, seria ed approfondita riflessione, su cosa ciascun operatore del settore deve fare; sembra impossibile ma, secondo me, l’unica vera soluzione a questa crisi, è migliorare la qualità del vino, nello stesso tempo ridurre la quantità, affrontare il mercato mondiali in un modo completamente diverso, mettere in discussione quanto si è fatto finora e studiare con gli esperti (Università) le possibili soluzioni; il mondo del vino è cambiato, i gusti dei consumatori sono cambiati; soltanto lo studio e la ricerca su questi temi possono portare a risolvere questi problemi.
Quanto segue sul tema della vinificazione acquista, alla luce di quanto riportato sopra, un rilievo ancora maggiore e più chiara diviene l’importanza anche commerciale degli studi in vitivinicoltura.
Continuo quindi con le parole del Prof. Vincenzini, microbiologo dell’Università di Firenze e coautore del manuale “Microbiologia del vino”, che ritengo debba essere studiato da tutti i vinificatori e da tutti coloro che trattano il vino in modo professionale.
“Nel mosto d’uva appena ottenuto, il numero di lieviti “vinari” per ml è molto variabile, da poche centinaia a qualche milione di cellule in funzione di numerosi fattori, sui quali, però non mi voglio soffermare. La specie S. cerevisiae è generalmente poco rappresentata, numericamente sempre in forte minoranza rispetto ad altre specie quali Metschnikowia pulcherrima, Kloeckera apiculata, Candida stellata (solo per citare le più frequenti). Successivamente i Saccharomyces diventano molti milioni per ml.
La fermentazione spontanea, come ricordato in precedenza, è caratterizzata dallo sviluppo ed azione in combinazione e/o successione di varie specie di lieviti naturalmente presenti nel mosto e provenienti dall’uva e/o dall’ambiente in cantina. Generalmente, all’inizio del processo sono presenti, dominanti e attivi, lieviti non-Saccharomyces. Prevalentemente di forma apiculata, non dotati di elevato potere alcoligeno e destinati ad essere sostituiti, nel giro di pochi giorni, da lieviti Saccharomyces, responsabili della cosiddetta fase tumultuosa della fermentazione e capaci di portare a termine il processo fermentativo. Le possibili varianti, specialmente in termini quantitativi, a questo quadro estremamente semplificato sono innumerevoli perché lo sviluppo e l’attività di ogni specie dipendono da numerosi fattori, sui quali non voglio al momento soffermarmi. In ogni caso, la tipologia delle specie presenti, l’entità del loro sviluppo e la persistenza di ciascuna popolazione nel processo fermentativo, grazie alle peculiarità metaboliche che in prima istanza potremmo considerare specie-specifiche, sono tutti elementi in grado di incidere anche fortemente sulle caratteristiche sensoriali del prodotto finale, nel bene ed anche nel male, è corretto sottolinearlo.
I vini prodotti mediante fermentazione spontanea presentano una maggiore complessità di aroma e di gusto rispetto ai vini ottenuti con fermentazione indotta ed a volte vengono giudicati “grandi”,dotati di carattere e personalità, “unici” nel loro genere. È facile, a questo punto, attribuire l’origine della maggiore complessità all’azione combinata e/o in successione di lieviti diversi a livello di specie e, all’interno della stessa specie, a livello di ceppo. A tale riguardo, una indagine da me svolta sulla variabilità genetica intraspecifica di Saccharomyces cerevisiae (sono stati studiati 145 isolati da fermentazioni spontanee di mosti d’uva di un singolo vigneto nel corso di sei vendemmie consecutive, dal 1994 al 1999) ha messo in luce una biodiversità impressionante, sia relativamente ad ogni singola annata che tra annate diverse: dai 145 isolati complessivamente esaminati sono stati ottenuti 50 diversi profili di restrizione del DNA mitocondriale, 50 ceppi su 145 isolati!
Certamente, accanto alla possibilità di giungere a prodotti di particolare “grandezza”, la fermentazione spontanea, per la sua intrinseca imprevedibilità degli esiti, può anche dar luogo a prodotti qualitativamente modesti. Per esperienza personale, però, questi casi sono molto spesso riconducibili ad uno scarso stato sanitario delle uve e/o ad una scarsa cura delle operazioni di cantina. In ogni caso, le metodologie analitiche oggi a disposizione consentirebbero di monitorare, in tempo quasi reale, l’andamento microbiologico della fermentazione vinaria spontanea, rendendo possibili eventuali interventi correttivi. Purtroppo, solo pochi produttori, consapevoli dell’importanza della ecologia microbica della vinificazione naturale, sono aperti e disponibili per indagini di questo tipo, cosicché solo pochi, anzi pochissimi, sono in grado di conoscere la storia vera del loro prodotto, e farne tesoro.